Ecco l'intervento dell’allora presidente della Banca centrale europea, in occasione del conferimento della Laura honoris causa in Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
“Fra
poche settimane si concluderà il mio mandato di Presidente della Banca centrale
europea. È un’occasione per sollevare lo sguardo dalle incombenze quotidiane,
per riflettere sull’esperienza fatta nella speranza che le lezioni apprese
possano essere utili per altri.
Parlerò
poco di politica monetaria o della professione del central banking. Preferisco
concentrarmi sulla natura delle responsabilità del policy maker. Ho avuto il
privilegio di ricevere, nelle varie posizioni che ho occupato, un mandato da
politici designati dalla volontà dei cittadini.
Qui
in Italia, al Tesoro e alla Banca d’Italia, in Europa, alla BCE e al Comitato economico
e finanziario europeo, a livello globale al Financial Stability Board. Ho avuto
la fortuna di lavorare con banchieri centrali, funzionari dello Stato e
politici di eccezionale valore, persone da cui ho appreso molto e a cui mi lega
un debito di gratitudine.
Spero
che almeno alcune delle lezioni apprese da loro possano servire alla prossima
generazione di servitori dello Stato. Molti studenti di questa e di altre
università vestiranno nel corso della propria vita i panni del servitore
pubblico.
Il
futuro della società dipende dal sentire il bene pubblico da parte dei giovani
migliori e dall’impegno che profondono nel raggiungerlo. Vorrei oggi
condividere con voi quelle che mi paiono caratteristiche frequenti nelle
decisioni che consideriamo “buone”: la
conoscenza, il coraggio, l’umiltà. Naturalmente la loro presenza non
garantisce che si prenda sempre la decisione giusta.
La conoscenza
L’incertezza
in cui operano i policy maker è dunque sostanziale. A maggior ragione le loro
decisioni dovrebbero cercare di essere fondate sulla conoscenza degli esperti.
Essa
fornisce le basi per comprendere nel profondo un problema, per essere in grado
di prendere decisioni ponderate, il cui merito tecnico è tenuto distinto dal
merito politico, e per saperle eventualmente correggere alla luce delle nuove
evidenze.
Il
policy maker non può appoggiarsi alla realtà empirica nello stesso modo di uno
scienziato ma può utilizzare lo stesso approccio nell’analisi dell’esperienza e
nel processo di verifica delle ipotesi adottate con l’obiettivo di rispondere
meglio alle richieste che i cittadini rivolgono ai governi.
Oggi viviamo però in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza per il policy making è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali.
Aumenta
invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti,
rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco. In questo contesto
è più facile per iI policy maker rispecchiare semplicemente quelli che egli
reputa essere gli umori della pubblica opinione, sminuendo il valore della
conoscenza, assumendo prospettive di breve respiro e obbedendo più all’istinto
che alla ragione.
Ma
solitamente ciò non serve l’interesse pubblico. La lezione della storia è
invece che le decisioni destinate ad avere un impatto duraturo e positivo sono
basate su un lavoro di ricerca ben condotto, su fatti accuratamente accertati e
sull’esperienza accumulata. Così è stato ad esempio per il sistema di Bretton
Woods che ha stabilizzato l’economia globale dopo la Guerra, assistendone lo
sviluppo per decenni e creando le istituzioni finanziarie senza le quali non
potremmo oggi cercare di governare le conseguenze della globalizzazione.
Quel
sistema non sarebbe mai nato senza la incessante ricerca empirica condotta
durante la guerra da un grande economista: Ragnar Nurske e senza l’esperienza e
la visione di John Maynard Keynes. La competenza fondata sulla conoscenza è
essenziale per capire la complessità, nel nostro caso, delle dinamiche
economiche e sociali, per quantificare i rischi associati a determinate
situazioni e per valutare di conseguenza l’effettiva necessità di una certa
azione.
Per
stimare i trade off e gli effetti distributivi di un intervento, individuando
coloro che ne beneficiano e coloro che ne vengono danneggiati. Credo ciò sia
importante in ogni ambito di policy. Un esempio particolarmente significativo è
costituito dal cambiamento climatico.
È
solo grazie al lavoro degli studiosi del clima che possiamo comprendere gli
scenari che ci aspettano, i feedback potenziali fra i vari ecosistemi,
quantificando i rischi estremi e i costi dell’inazione – come ha mostrato
brillantemente l’economista Martin Weitzman – e prevedendo le regioni e i
settori produttivi maggiormente esposti come ad esempio l’agricoltura che in Italia
e in molti altri Paesi verrà investita da eventi metereologici sempre più
difficili da gestire.
Come
per la crisi ecologica, la crisi dell’area dell’euro ha rivelato l’esistenza di
molteplici circoli viziosi precedentemente non ben compresi, ad esempio quello
fra debiti sovrani, banche e imprese. La crisi ha inoltre messo in discussione
ciò che sapevamo su alcune relazioni di fondo nell’economia, come quella fra
disoccupazione e inflazione. La ricerca e l’analisi accurata dei dati
dell’economia dell’eurozona, il lavoro degli economisti e degli statistici sono
da decenni il pilastro su cui poggiano le valutazioni della Bce.
In
più occasioni queste attività hanno avuto un’importanza cruciale nel
contestualizzare correttamente il problema e nel fornire le coordinate per una
risposta efficace. Un esempio in questo senso è l’inedito insieme di misure
disegnato nel 2014-15, con l’introduzione di tassi di interesse negativi e
l’acquisto di titoli pubblici, per scongiurare l’incipiente deriva verso la
deflazione. Allora molti policy maker, me incluso, si interrogavano su come
queste misure potessero funzionare nell’area dell’euro.
I
tassi di interesse non erano mai stati sospinti nella zona negativa in una
grande economia. Non conoscevamo gli effetti degli acquisti di titoli pubblici
in un’economia basata sulle banche come l’area dell’euro. Entravamo in terra
incognita, dove per definizione gli effetti delle nostre azioni non potevano
essere previsti con certezza. Le decisioni furono tuttavia guidate dai riscontri
di cui disponevamo e da una valutazione complessiva dei rischi e delle opzioni
utilizzabili per rispondervi.
L’evidenza
era allora univoca. Senza ricorrere a misure non convenzionali la Bce non
sarebbe stata in grado di adempiere al suo mandato di tutelare la stabilità dei
prezzi. Le analisi suggerivano che il limite effettivo dei tassi di interesse
era inferiore a quanto precedentemente ritenuto e che gli acquisti di titoli
pubblici potevano avere un impatto rilevante tramite le banche perché ne
avrebbero ridotto i costi di finanziamento e le avrebbero incentivate a far
credito all’economia reale piuttosto che al settore pubblico. Le più recenti
stime lo hanno confermato.
Esse
mostrano che le misure introdotte hanno avuto un impatto sostanziale,
contribuendo per 2,6 punti percentuali alla crescita del PIL nell’area
dell’euro fra il 2015 e il 2018 e per 1,3 punti percentuali all’inflazione.
Almeno un quinto dell’impatto complessivo sulla crescita nell’anno di picco, il
2017, è attribuibile ai tassi negativi, mentre gli acquisti di titoli
contribuiscono per la maggior parte della quota restante. Nelle nostre
valutazioni tenevamo conto anche dei possibili effetti collaterali.
Tutte
le politiche monetarie ne producono, anche in tempi normali, incidendo su
alcune categorie più che su altre. Ma come banca centrale dell’intera area la Bce
deve valutare il quadro complessivo e verificare se i benefici netti delle
misure intraprese superano i costi potenziali. I dati suggerivano – e
continuano a suggerire – che così in effetti era, una conclusione condivisa da
tutta la comunità del central banking, come mostra un recente rapporto della
Banca dei regolamenti internazionali.
Tuttavia,
come sempre per il policy making basato sull’evidenza empirica, le conclusioni
che si raggiungono devono essere aggiornate e riviste, quando necessario. È in
quest’ottica che la Bce ha recentemente corretto il tiro, in materia di tassi
negativi, introducendo un sistema a due livelli per la remunerazione delle
riserve in eccesso. In altre circostanze, sempre un’accurata analisi fattuale
ha mostrato come la preoccupazione di un peggioramento della diseguaglianza a
seguito delle politiche non convenzionali fosse infondata, rafforzando la
determinazione della Bce a proseguire nella stessa direzione.
Questo
non significa che gli esperti – inclusi quelli della Bce – possano contare su
una conoscenza perfetta. Le teorie non spiegano necessariamente tutto e le
previsioni che ne discendono possono rivelarsi errate. La crisi ha mostrato che
l’opinione prevalente nella professione sbagliava nel ritenere che i mercati
finanziari potessero autoregolarsi. In effetti, lo ha spiegato Robert Shiller,
non solo gli agenti operanti sul mercato ma anche gli esperti possono cadere
vittima di “epidemie narrative” con effetti negativi sull’economia. Contrastare
questi fenomeni non significa rifiutare il valore della conoscenza.
Gli
esperti devono continuamente mettere in discussione le loro ipotesi,
riesaminare le evidenze, e saper ascoltare la voce di chi non è d’accordo. Per
i policy maker i dissensi sono come uno specchio con cui osservare le proprie
azioni e costituiscono uno strumento con cui spezzare la forza delle narrative
dominanti.
Ciò
è essenziale per l’avanzamento della conoscenza e rappresenta il fondamento del
progresso scientifico. Nulla può sostituire per chi deve prendere decisioni il
ruolo di un’analisi rigorosa, accompagnata dell’esperienza. Il coraggio La
conoscenza non è però tutto. Una volta stabilito nella misura del possibile
come stanno i fatti arriva il momento della decisione. Anche nel caso della
politica economica, le azioni hanno sempre effetti collaterali e conseguenze
indesiderate.
Vi
sono situazioni in cui anche le migliori analisi non danno quella certezza che
rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente. È in
questo momento che il policy maker deve far leva sul coraggio. Anche il non
agire rappresenta infatti una decisione. Quando l’inazione compromette il
mandato affidato al policy maker dai legislatori, decidere di non agire
significa fallire. In molti casi i policy maker devono agire consapevoli che le
conseguenze delle loro decisioni sono incerte, ma convinti che l’inazione
porterebbe a conseguenze peggiori e al tradimento del loro mandato.
Spesso,
durante la crisi dell’ultimo decennio la necessità di prendere decisioni anche
cruciali si è scontrata con il timore che non tutte le possibili complicazioni
fossero state considerate, con l’opposizione da parte di interessi costituiti,
con i dubbi sulla legittimità ad agire. L’inazione trova la sua radice nella
convinzione che l’esistente non abbia bisogno di modifiche, anche quando tutta
l’evidenza e l’analisi indicano la necessità di agire. Questo autocompiacimento
acritico si avvale delle giustificazioni più diverse e generalmente non
verificate nella realtà.
La
costituzione del Meccanismo europeo di stabilità (ESM), il varo della vigilanza
bancaria europea, la creazione del Fondo di risoluzione unico sono stati tutti
ostacolati adducendo problemi di azzardo morale che sarebbero discesi dalla
riallocazione a livello europeo di alcune responsabilità nazionali. In
retrospettiva, ai governi dell’area dell’euro non è mancato il coraggio; hanno
saputo compiere i passi giusti nei momenti cruciali. L’unione monetaria è ora
più forte e gran parte delle paventate complicazioni si sono rivelate
infondate.
Il
punto importante, in questa sede non è che queste decisioni si siano rivelate
appropriate ex post; conta invece che, quando la necessità di agire è stata
documentata e motivata è stato trovato il coraggio di decidere, senza
esitazioni, per il bene dell’Unione economica e monetaria.
Il
secondo ostacolo incontrato dai riformatori è l’opposizione da parte degli
interessi costituiti. Fu infatti immediatamente chiaro che alcuni governi
avrebbero dovuto varare un programma di riforme strutturali per migliorare le
prospettive di crescita e ridurre la disoccupazione.
Le
riforme strutturali non possono beneficiare tutti: accanto ai vincitori ci sono
i perdenti che si oppongono alla loro realizzazione. Eppure quei governi hanno
saputo distinguere gli interessi costituiti dall’interesse pubblico, guardando
alla larga maggioranza che si sarebbe giovata delle riforme. I risultati
positivi sono oggi sotto gli occhi di tutti. Con riferimento specifico al
mercato del lavoro, l’evidenza mostra chiaramente come le riforme realizzate
dopo la crisi abbiano ridotto sia la componente strutturale della
disoccupazione che quella ciclica.
Esse
hanno inoltre accresciuto la reattività dell’occupazione alla crescita,
contribuendo per questa via all’aumento di 11 milioni di occupati registrato
nell’area dell’euro dalla metà del 2013, quando si avviò la ripresa. Il terzo
ostacolo sono i dubbi sulla legittimità ad agire. Anche la Bce ha incontrato
quest’ostacolo con riferimento a molte delle sue misure non convenzionali, non
da ultimo le operazioni monetarie definitive (OMT) introdotte nell’estate del
2012.
Alcuni
vi si opposero con decisione, perché a loro parere il compito di stabilizzare
l’area dell’euro spettava ai politici, non alla banca centrale che così facendo
avrebbe invaso il campo della politica fiscale. Da un lato, vi era il timore
che l’impegno ad acquistare illimitatamente titoli pubblici avrebbe potuto
rendere incerto il confine fra la politica monetaria e le altre politiche. Ma
in questo caso si trattava più di una questione di disegno che di principio.
Era necessario mettere in campo garanzie e limiti che contenessero i rischi,
obiettivo che realizzammo, fra l’altro, con la condizione che fosse attivato
simultaneamente un programma da parte del Fondo europeo di stabilità (ESM) in
grado di garantire l’attuazione di politiche di bilancio adeguate per poter
accedere all’OMT.
La
Corte di giustizia europea confermò che il disegno delle operazioni era
pienamente conforme al mandato della BCE. D’altro canto emergeva il rischio
concreto che se non avessimo agito con decisione l’area dell’euro sarebbe stata
investita da una catastrofica destabilizzazione, con profondi effetti
deflattivi. Nel luglio del 2012 gli spread dei titoli pubblici a 10 anni
rispetto all’equivalente titolo tedesco erano pari rispettivamente a 500 punti
base in Italia e a 600 in Spagna; valori ancora più elevati si registravano per
la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda. Il costo di protezione dalla deflazione
era cresciuto da 184 punti base nel gennaio del 2012 a 276 in luglio.
Il
coraggio necessario per agire venne dalla convinzione che i rischi incombenti
sarebbero stati assai maggiori se non avessimo fatto nulla. Saremmo in questo
caso semplicemente venuti meno al nostro mandato e avremmo potenzialmente messo
a rischio l’integrità della moneta che avevamo il compito di preservare.
Ciò
rendeva inevitabile la decisione presa; era l’unica possibile per un policy
maker responsabile. Le operazioni monetarie definitive OMT non sono state mai
attivate ma l’effetto del nostro impegno a fare tutto ciò che fosse necessario
per preservare l’euro fu potente, equivalente a quello di un programma di
acquisto di titoli su larga scala. Gli spread nei paesi esposti caddero in
media di 400 punti base nei successivi due anni. L’impatto macroeconomico
dell’annuncio del programma fu di entità analoga a quella di altri programmi di
acquisto di attività finanziarie che vennero attuati in altri Paesi. Ricerche
condotte nella BCE mostrano che gli effetti sul PIL e sui prezzi sono stati
sostanzialmente in linea con quelli prodotti dall’espansione monetaria (QE)
attuata negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
L’umiltà
Essa
discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore
pubblico non sono illimitati ma derivano dal mandato conferito che guida le sue
decisioni e pone limiti alla sua azione. I funzionari pubblici, le banche
centrali in particolare, ricevono un mandato politico, nel senso che esso è il
frutto di un processo politico. I membri del Comitato esecutivo della Bce sono
nominati dal Consiglio degli Stati – il Consiglio europeo – e sugli stessi
esprimono un parere i rappresentanti dei cittadini: il Parlamento europeo. Sono
vincolati da un obiettivo, la stabilità dei prezzi, che in Europa ha valore
costituzionale – è iscritto nel Trattato. Altrove è definito dalla legge, ma
scaturisce sempre da un processo democratico.
Essi
devono dunque rispondere ai parlamenti della loro azione. Un mandato politico è
essenziale affinché l’indipendenza della banca centrale sia compatibile con la
democrazia. Le banche centrali sono potenti e indipendenti ma non sono elette
dai cittadini: è un assetto accettabile solo se esse agiscono sulla base di un
mandato chiaramente definito dato da coloro che sono eletti e a cui devono
pubblicamente rispondere.
Il
Presidente della Bce viene ascoltato almeno ogni tre mesi dal Parlamento
europeo, e nel mio caso ciò ha comportato quaranta audizioni in otto anni;
inoltre sono stato convocato dalle commissioni parlamentari in diversi Paesi
per spiegare le nostre azioni e per rispondere alle loro domande. La natura
politica del nostro mandato ha alcune implicazioni essenziali: non abbiamo la
libertà di decidere se dobbiamo fare ciò che è necessario fare per assolvere il
nostro mandato.
È
nostro dovere farlo. Rassegnarsi a venirvi meno non è un’opzione accettabile se
abbiamo gli strumenti per adempiere alle nostre responsabilità. Al contempo, il
mandato implica l’obbligo permanente di agire rigorosamente nei limiti della
legge. Nessun policy maker responsabile può mai concepire di agire ultra vires.
Tutta l’azione della BCE durante la crisi è stata guidata da questo principio. Un
esempio particolarmente significativo è la situazione che dovemmo affrontare in
Grecia alla metà del 2015. Fronteggiavamo allora due posizioni diametralmente
opposte. La prima sosteneva che la BCE avrebbe dovuto interrompere i
finanziamenti alla Grecia; ciò avrebbe determinato il collasso completo
dell’economia greca e la probabile uscita del Paese dall’euro. La seconda
riteneva che dovessimo in ogni caso fornire liquidità illimitata e
incondizionata al governo e all’economia della Grecia.
Nel
primo caso la BCE avrebbe innescato un processo eminentemente politico di
enorme portata con possibili ricadute sul mandato stesso della Bce, una
decisione comunque di competenza delle autorità politiche, espressione della
volontà dei cittadini. Nel secondo, avremmo potenzialmente avviato un
finanziamento monetario o sostenuto banche senza adeguato collaterale, violando
così il Trattato. Seguimmo un sentiero che rispondeva ai doveri del mandato,
rimanendo rigorosamente entro i limiti della legge.
Il
sostegno dato alla Grecia fu sostanziale: al suo picco, la somma dei prestiti
erogati dalla BCE e dalla Banca di Grecia alle banche del Paese raggiunse 127
miliardi, corrispondenti al 71% del PIL. Ma i finanziamenti non furono mai né
incondizionati né illimitati. L’aderenza a un programma di risanamento
concordato con l’Eurogruppo garantiva la qualità del collaterale, i titoli di
Stato dati dalle banche greche come garanzia per il loro finanziamento. Inoltre
varie clausole evitavano qualsiasi finanziamento monetario del bilancio
pubblico.
La
Bce si mantenne così entro i limiti del suo mandato. In ultima analisi la
nostra scelta si è rivelata giusta, sia per la Grecia che per l’Europa, anche
se il prezzo per i cittadini greci è stato alto. Grazie alla solidarietà
dell’Europa, al coraggio e all’impegno dei successivi governi greci si è
trovato un percorso per uscire dalla crisi. Siamo sempre stati consapevoli
della entità e dei limiti dei nostri obblighi legali. Per questo non ci hanno
preoccupato i ricorsi contro alcune nostre decisioni presentati alla Corte di
giustizia europea.
Anzi,
ne siamo stati lieti perché ciò ha consentito alla più alta autorità giuridica
europea di confermare la piena legittimità delle nostre azioni e di chiarire
quali ne fossero i limiti. La Corte non soltanto affermò che gli acquisti di
attività sono uno strumento legittimo di politica monetaria nell’area
dell’euro, ma rilevò anche l’ampia discrezionalità della BCE nel ricorrere a
tutti i suoi strumenti secondo necessità e in maniera proporzionata per
conseguire il suo obiettivo. Ho descritto la nostra posizione con l’imperativo
di “fare tutto ciò che dobbiamo entro il nostro mandato e per adempiere al
nostro mandato”.
Ma
il riconoscimento dell’estensione e dei limiti del nostro mandato comporta
l’obbligo di parlare chiaramente quando necessario e di spiegare le opzioni
disponibili. Oggi ciò è necessario. Descrissi una volta l’indipendenza della
banca centrale come indipendenza nell’interdipendenza. Intendevo con ciò
sottolineare che il contesto istituzionale nel quale operiamo influenza la
velocità con la quale raggiungiamo il nostro obiettivo e l’entità degli effetti
collaterali delle nostre azioni. È doveroso esprimere con chiarezza quando
altre politiche potrebbero rendere il nostro compito più agevole e rapido.
L’indipendenza
della banca centrale non è un fine in se stesso. Il suo scopo risiede nel
garantire la credibilità della banca centrale nel perseguimento della stabilità
dei prezzi e nello scongiurare che la politica monetaria sia succube della
politica fiscale; essa assicura così una “dominanza monetaria”.
L’indipendenza
della banca centrale non impedisce perciò un dialogo con il governo quando è
evidente che esso consentirebbe un più rapido ritorno alla stabilità dei
prezzi. Pone soltanto dei limiti ai suoi eventuali effetti. In particolare un
coordinamento delle politiche, quando necessario, deve contribuire alla
stabilità monetaria e non può ostacolarla.
Per
questa ragione sin dal 2014 abbiamo rivolto sempre maggiore attenzione al mix
di politica macroeconomica nell’area dell’euro, vale a dire alla combinazione
dei contributi forniti dalle politiche monetaria e fiscale al sostegno
dell’economia.
Dove
la politica fiscale ha svolto un ruolo più rilevante dopo la crisi, il ritorno
alla stabilità dei prezzi è stato più rapido. Negli Stati Uniti, ad esempio,
dal 2009 al 2018 il disavanzo primario strutturale è stato in media pari al
3,6% del PIL potenziale, nell’area dell’euro si è registrato un avanzo pari
allo 0,5%.
È
una delle ragioni per cui i tassi di interesse hanno potuto risalire più
velocemente negli Stati Uniti, mentre nell’area dell’euro sono bassi o negativi
da lungo tempo. Una politica fiscale più attiva nell’area dell’euro
permetterebbe quindi di modificare più celermente quelle politiche dei cui
effetti negativi su alcune categorie di cittadini e di intermediari siamo ben
consapevoli. È sempre avendo in mente “indipendenza nell’interdipendenza” che,
durante il mio mandato, la Bce ha continuamente auspicato il varo di ulteriori
riforme istituzionali nell’area dell’euro. Abbiamo accolto con favore i
progressi realizzati ed esortato governi e parlamenti a proseguire il loro
impegno in questa direzione. Lo abbiamo fatto perché siamo convinti che solo in
questo modo la nostra unione monetaria potrà divenire più robusta e essere più
capace di rispondere alle attese che ne hanno motivato la creazione.
Conclusioni
Come
ho detto nell’introduzione, mi auguro che molti studenti di questa università
decidano un giorno di mettere le loro capacità al servizio pubblico. Se
deciderete di farlo, non dubito che incontrerete ostacoli notevoli, come
succede a tutti i policy maker.
Ci
saranno errori e ritirate perché il mondo è complesso. Spero però che vi possa
essere di conforto il fatto che nella storia le decisioni fondate sulla
conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità.
La creazione dell’Unione europea, l’introduzione dell’euro e l’attività della Bce
hanno incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche. Hanno
dimostrato nondimeno il loro valore; oggi sono coloro che dubitavano a essere
messi in discussione. Ciò riflette lo sviluppo normale delle unioni monetarie,
che è lento, non lineare, accidentato. Gli Stati Uniti, ad esempio, non ebbero
una banca centrale per più di 130 anni dopo la loro fondazione; il bilancio
federale ha assunto un vero ruolo solo negli anni Trenta dello scorso secolo.
Oggi
pochi penserebbero di ritornare indietro. È essenziale per lo sviluppo di
un’unione monetaria che i suoi cittadini credano nell’unione e la assumano
comunque, anche criticamente, come riferimento piuttosto che considerare tutti
i problemi guardando all’orizzonte del loro punto di vista particolare. Mi
sembra che le ultime elezioni per il Parlamento europeo, forse le prime
incentrate su temi prevalentemente europei, lo abbiano confermato.
Anche
chi mirava a rallentare l’integrazione europea non ha contestato la legittimità
delle istituzioni dell’Unione, pur criticandole anche duramente. I parlamentari
eletti sono risultati in maggioranza a favore dell’Europa. Per questa ragione
sono ottimista sul futuro dell’Europa. Penso che col tempo essere parte dell’Ue
e dell’Unione monetaria sia diventato normale per gran parte dei cittadini.
L’euro
è più popolare che mai; il sostegno all’UE tocca i valori più alti registrati
dall’inizio della crisi. Nei dibattiti sul futuro dell’Europa si discute sempre
meno se la sua esistenza abbia senso e assai di più sulla via migliore per
avanzare. Su queste basi la nostra Unione può durare e prosperare".
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