Ed eccomi di nuovo qui. Ho appena finito di leggere un articolo, datato 29 settembre 2001. Molti, spero tantissimi, lo ricorderanno. Avranno in mente le parole di Oriana Fallaci, dopo i tragici avvenimenti che stravolsero il mondo quell'11 settembre. Leggendo questo ''Sermone'', come la stessa Fallaci lo considerò, ho ripercorso quei momenti e li ho trovati di grande attualità. Ho sottolineato in grassetto la parte del pezzo, dedicata all'Italia. Dopo le polemiche feroci degli ultimi tempi, noi tutti dovremmo imparare cosa significa la parola ''Patriottismo''. Dovremmo essere uniti, nonostante le diversità politiche e ideologiche, per il bene della cittadinanza. Un'utopia? Spero di no. Voglio ancora crederci....
LA RABBIA E L’ ORGOGLIO (f.
de b.) Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di
un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore
e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell’ anno a
Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno.
Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato, nessuno c’ è riuscito. Isolata.
Ma la storia e il destino hanno voluto che il centro della moderna apocalisse
si aprisse, come una voragine dantesca, poco distante dalla sua bella e
letteraria abitazione. L’ onda d’ urto di quella mattina dell’ 11 settembre ha
sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto
inconsueto del quale sembra meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e insieme
feroce. Oriana lavora da anni a un’ opera molto importante e attesa in tutto il
mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore
guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato,
sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni,
pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d’ anima», aveva scritto qualche
anno fa. E’ ancora vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui
ragionare e riflettere. Sull’ America, sull’ Italia, sul mondo islamico. Sulla
Patria (sorprendente quel che dice sulla Patria). Invettive e tesi che nel
medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal cuore, o meglio dal cervello
attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora
lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla»,
sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome.
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Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il
silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale.
E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’
altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!».
Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere
definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o
cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui
che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello
stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto,
molto arrabbiata. Arrabbiata d’ una rabbia fredda, lucida, razionale. Una
rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di
rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata
come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry.
It’ s good to be angry, it’ s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere
arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene
a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime
comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo
tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di
raccontare come l’ ho vissuta io, quest’ Apocalisse. Di fornire insomma la mia
testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel
centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d’ un pericolo
che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che
si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua
pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a
chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L’ ho respinta. Non ero
mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin
dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York,
perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione
ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino
non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l’ audio non funzionava. Lo schermo, sì. E
su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del
World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto
circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi
paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle
tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di
linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre
come un bombardiere che punta sull’ obiettivo, si getta sull’ obiettivo. Sicché
ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l’ audio è tornato e ha
trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God,
God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l’ aereo s’ è
infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto
di burro. Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato
durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di
ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose
le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire
bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani,
ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù
come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così
lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’ aria. Sì, sembravano
nuotare nell’ aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però,
acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi
gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a
sasso e paf! Sai, io credevo d’ aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi
ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche
quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre
visto la gente che muore ammazzata. Non l’ ho mai vista la gente che muore
ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d’ un ottantesimo
o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che
scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle
due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se
stessa. La seconda s’ è fusa, s’ è sciolta. Per il calore s’ è sciolta proprio
come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m’ è parso, in
un silenzio di tomba. Possibile? C’ era davvero, quel silenzio, o era dentro di
me? Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di
morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento.
Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si
son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di
Mexico City, quella dove anch’ io mi beccai un bel po’ di pallottole, di morti
ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono
nell’ obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi
sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila
persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non
funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva
un’ eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il numero dei morti.
(Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per
non sottolineare l’ intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a
Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che
hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al
massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un
dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è
materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri
il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti
inutilizzati. *** Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun
rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre
col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per
ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli
giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri
Micca che per bloccar l’ arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e
saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati.
E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il
signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman,
luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della
Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la
gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte
propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona
ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso
di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il
Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi anche
fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel
mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana
(oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta
morti) a Beirut. Se l’ erano fatta scattare prima d’ andar a morire, quella
fotografia, e prima d’ andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel
taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette
civettuole... Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai,
tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi
differenze di opinione che avemmo durante quell’ incontro né il giudizio che su
di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli
ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano
imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una
rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato.
Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo
urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor
Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati
in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata
dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati
che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i
martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli
eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che
invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati!
Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che
ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa,
afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella
sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho
ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con
gli Arafat mi viene la febbre. *** Preferisco parlare dell’ invulnerabilità che
tanti, in Europa, attribuivano all’ America. Invulnerabilità? Ma come
invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al
terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più
subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni
in Italia in Germania e in altre regioni d’ Europa. E che ora avvengono,
ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un
regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi.
L’ Unione Sovietica, i paesi satelliti dell’ Unione Sovietica e la Cina
Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l’ Iraq, l’ Iran, la Siria, il
Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin
Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l’ Afghanistan, e tutte le
regioni musulmane dell’ Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io
mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L’ unica cosa
che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli
aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta.
Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due
volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L’ aereo sul Pentagono non
me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema
di «se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì
mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella
sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini
abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo
mentre la prima torre bruciava e l’ audio non funzionava, ci fosse quella sull’
attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito?
Poiché l’ America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente,
il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani
stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell’ America nasce proprio dalla sua
forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita
storia del cane che si mangia la coda. Nasce anche dalla sua essenza
multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli
ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani.
E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall’ Afghanistan per visitare
lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per
imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d’ iscriversi a un’ Università
(cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze
necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il
governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di
batteri nel deposito dell’ acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché
stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia
e dall’ Fbi va al di là d’ ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati
Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò
torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della
ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il
rock and roll, il chewing-gum e l’ hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i
suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei
grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi
dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei
giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i
camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce
fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l’ hanno inventata
loro. O almeno sviluppata fino all’ isteria). Quel Pentagono terrificante,
quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente,
onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto
la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare,
vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli,
sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the
way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo
mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare
nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent’ anni) si diverte ad
ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo
sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d’ una Corporation
specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La
demolizione è una specialità americana. *** Quando ci siamo incontrati t’ ho
visto quasi stupefatto dall’ eroica efficienza e dall’ ammirevole unità con cui
gli americani hanno affrontato quest’ Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti
che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma
quelli dell’ Europa e in particolare dell’ Italia sono ancora più gravi), l’
America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito dell’ eroica
efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph
Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un
cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al
mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo
dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se
stessa. E’ un sindaco degno d’ un altro grandissimo sindaco col cognome
italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a
scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e
chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i
suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità.
Non si divide tra l’ incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C’ è
nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a
Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo
grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S’ è salvato
per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la
città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi
due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E’ malato come me,
pover’ uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa
finta d’ essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco,
stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona
alla battaglia. Un soldato che si lancia all’ attacco con la baionetta. «Forza,
gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché
quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe
detto mio padre, e con le palle. Quanto all’ ammirevole capacità di unirsi,
alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie
e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì,
che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s’ era stretto
intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di
Hitler e l’ Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L’ avevo annusata,
sì, dopo l’ assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in
Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo
senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d’ un secolo e mezzo fa.
Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati,
quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save
America, Dio salvi l’ America», quando gli ho visto cancellare tutte le
divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton
(persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci
intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le
medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora
senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da
Lieberman, l’ ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo
sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il
Congresso ha votato all’ unanimità d’ accettare la guerra, punire i responsabili.
Ah, se l’ Italia imparasse questa
lezione! È un Paese così diviso, l’ Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle
sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’ interno dei partiti, in Italia.
Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso
distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai
propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia,
alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i
dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente
convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o
la Torre di Pisa, l’ opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo
darebbe la colpa all’ opposizione. I capoccia del governo e i capoccia
dell’ opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò
lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli
americani. Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e
capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli
operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di
salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito.
Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti
rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso
permettermi d’ essere esausto, non d’ essere sconfitto». Tutti. Giovani,
giovanissimi, vecchi, di mezz’ età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L’
avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le
bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè!
Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l’ ha
organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le
organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli
disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono
tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono
neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la
Patria... In inglese la parola Patria non c’ è. Per dire Patria bisogna
accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre.
Native Land,
Fallaci Oriana, De Bortoli
Ferruccio
Ciao e grazie per l'articolo! Posso segnalarvi questo concorso di SES Astra per foto/video con in palio dei buoni amazon da 75€? Qui tutti i dettagli: http://www.parabolaconvista.it/
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